Un interessante articolo sull’inserto Domenica del Sole 24 Ore ha aperto un interessante dibattito sul rapporto tra cultura e sviluppo (anche economico). In un Paese ricco di storia, di tradizioni, di cultura come il nostro è necessario sfruttare la situazione di crisi per ripensare in maniera profonda il nostro modello di sviluppo, proprio a partire dai punti di forza che nei secoli ci hanno contraddistinto.
La ricerca, la formazione l’attenzione al poliedrico mondo della cultura innescano innovazione e di conseguenza possono portare progresso e sviluppo. Occorre che questa impostazione sia trasversale all’azione di governo sia a livello nazionale che ai livelli più decentrati. La cultura in senso ampio deve essere un “settore” che sappia trainare il Paese, non deve rimanere un argomento di nicchia. Le città devono tornare ad essere laboratori di ricerca e di sperimentazione.
Occorre uno sguardo condiviso che abbracci più discipline e sappia mettere in campo le giuste risorse senza paura e senza sprechi. Soprattutto vanno evitate gelosie, mancanza di cooperazione, clientelismo, vanno risolti i conflitti e creata maggiore collaborazione.
L’articolo di Domenica suggerisce in modo sensato che già dalle scuole primarie è necessario potenziare o reintrodurre lo studio dell’arte e della storia, senza tralasciare quello delle materie scientifiche, ma evitando di vedere fantasiose separazioni tra cultura umanistica e scientifica. Un modo questo per conoscere e difendere il nostro patrimonio e per essere stimolati alla scoperta e all’innovazione.
Il tutto per concludere deve prevedere una corretta e stimolante compartecipazione tra pubblico e privato, con i rispettivi ambiti di intervento, ma con la voglia di preservare e ampliare il patrimonio storico, culturale e scientifico che è nel DNA dell’Italia.
La risposta del Governo non si è fatta attendere: i Ministri Passera (sviluppo economico), Ornaghi (cultura) e Profumo (università) hanno di fatto condiviso il ragionamento e espresso il loro impegno in quanto “Riteniamo meritevole ogni iniziativa che sappia riportare al centro del dibattito pubblico il valore della cultura, della ricerca scientifica, dell'innovazione e dell'educazione a vantaggio del progresso nel nostro Paese.”
Anche da qua si capisce che il nostro Paese ha le potenzialità e la voglia di cambiare.
«Non cercare di diventare un uomo di successo, ma piuttosto un uomo di valore.» A. Einstein
venerdì 24 febbraio 2012
Per il futuro dell’Italia: legare la cultura, l'arte, la ricerca con lo sviluppo e la creazione di occupazione
venerdì 10 febbraio 2012
Africa, ritorno del colonialismo?
Aumenta la pressione commerciale sui terreni agricoli nel Sud del mondo. Negli ultimi dieci anni le terre che sono state di fatto "occupate" da governi o multinazionali estere rappresentano una superficie pari a circa otto volte il territorio della Gran Bretagna. Tale evento avrà secondo gli esperti un notevole impatto sulla filiera globale del cibo, le cui ricadute si rifletteranno tanto sui Paesi africani che sui consumatori finali nel Nord industrializzato.
Pur se non è possibile trarre conclusioni certe sull'impatto di questi investimenti, visto il breve lasso temporale di osservazione del fenomeno, appaiono delle contraddizioni insite nel fronte neo-liberale dove compaiono allarmi circa l'attenzione sui rischi di speculazione finanziaria e marginalizzazione sociale in quei Paesi, soprattutto in Africa sub-sahariana, che si contraddistinguono per una governance poco trasparente. Anche laddove si registrano benefici economici e occupazionali, questi rimangono spesso retaggio delle elite locali, formali e informali, lasciando alle comunità espropriate le esternalità negative.
Si delinea dunque un quadro che ripercorre, in forme nuove e contingenti, dinamiche già sperimentate nel passato coloniale. Cambiano parzialmente gli attori, oggi riconducibili in buona parte al novero delle cosiddette potenze emergenti (Cina, Russia, Brasile, India, Sud Africa), ma non le inevitabili contraddizioni insite nell'espansione del modello di produzione capitalistico a società spesso prive di quei pesi e contrappesi maturati nel tempo dai sistemi occidentali.
La terra disponibile per la coltivazione tende a ridursi, mentre la popolazione mondiale continua a crescere. Purtroppo come spesso capita, il dibattito ha rapidamente assunto connotati ideologici, con opinioni contrastanti tra le diverse parti in causa, da un lato con il miraggio della modernizzazione e dall'emancipazione dal bisogno per il Sud del mondo, tramite l'industrializzazione dell'agricoltura; dall'altro con il termine "land grabbing – letteralmente "accaparramento della terra" – esprime di per sé una connotazione negativa.
Per i fautori del progetto neo-liberale, il trasferimento di larghi tratti di terra nelle mani di grandi imprenditori, locali o esteri, consentirà di strappare alla povertà milioni di persone nei più remoti angoli del pianeta. I nuovi flussi di investimenti comporterebbero l'aumento della produzione alimentare e la creazione di nuovi posti di lavoro, ponendo così un argine alle perduranti carestie e alla penuria di opportunità economiche nelle campagne. La fede ideologica nel libero mercato si attenua nella prospettiva riformista, che riconosce alcune contraddizioni in tema di sicurezza alimentare e tutela del tessuto sociale, auspicando un maggior interventismo dello Stato per garantire i diritti delle comunità espropriate.
Nella prospettiva degli oppositori, le dinamiche che contraddistinguono la corsa all'accaparramento fondiario celano piuttosto la dismissione della dimensione pubblica dello Stato a favore degli interessi del grande capitale, così come l'abrogazione dei diritti conquistati negli ultimi decenni da categorie sociali storicamente discriminate, quali i gruppi nomadi e i piccoli coltivatori. In termini generali, le ricette prospettate spaziano da una ristrutturazione degli accordi di scambio internazionali all'adozione di riforme agrarie redistributive, che spezzino il monopolio dei grandi latifondi e garantiscano l'accesso ai fattori di produzione su un piano di uguaglianza.
Etiopia - Aprile 2006 |
Nella prospettiva degli oppositori, le dinamiche che contraddistinguono la corsa all'accaparramento fondiario celano piuttosto la dismissione della dimensione pubblica dello Stato a favore degli interessi del grande capitale, così come l'abrogazione dei diritti conquistati negli ultimi decenni da categorie sociali storicamente discriminate, quali i gruppi nomadi e i piccoli coltivatori. In termini generali, le ricette prospettate spaziano da una ristrutturazione degli accordi di scambio internazionali all'adozione di riforme agrarie redistributive, che spezzino il monopolio dei grandi latifondi e garantiscano l'accesso ai fattori di produzione su un piano di uguaglianza.
Pur se non è possibile trarre conclusioni certe sull'impatto di questi investimenti, visto il breve lasso temporale di osservazione del fenomeno, appaiono delle contraddizioni insite nel fronte neo-liberale dove compaiono allarmi circa l'attenzione sui rischi di speculazione finanziaria e marginalizzazione sociale in quei Paesi, soprattutto in Africa sub-sahariana, che si contraddistinguono per una governance poco trasparente. Anche laddove si registrano benefici economici e occupazionali, questi rimangono spesso retaggio delle elite locali, formali e informali, lasciando alle comunità espropriate le esternalità negative.
Si delinea dunque un quadro che ripercorre, in forme nuove e contingenti, dinamiche già sperimentate nel passato coloniale. Cambiano parzialmente gli attori, oggi riconducibili in buona parte al novero delle cosiddette potenze emergenti (Cina, Russia, Brasile, India, Sud Africa), ma non le inevitabili contraddizioni insite nell'espansione del modello di produzione capitalistico a società spesso prive di quei pesi e contrappesi maturati nel tempo dai sistemi occidentali.
Come ho avuto modo di capire nel viaggio che feci per tre mesi in Etiopia nel 2006, è opportuno sottolineare come la terra, considerata nella nostra visione alla stregua di una qualunque merce, incorpora in Africa un insieme di valori che travalicano la sola sfera economica: l'espropriazione arbitraria delle risorse naturali può dunque costituire nell'immediato futuro un fattore di destabilizzazione anche politica. Ciò rischia di rafforzare ulteriormente le spinte centrifughe e le rimostranze armate di minoranze etniche, linguistiche e religiose.
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giovedì 2 febbraio 2012
Cosa si sta facendo per combattere la povertà nel nostro Paese?
Spesso il tema della povertà lo si associa a qualcuno lontano da noi, a qualcuno che vediamo rovistare nei cassonetti o chiedere qualche euro di carità. Innanzitutto è difficile aver chiaro il concetto di povertà, che è un qualcosa di poliedrico, che ha nel versante economico la più visibile delle sue dimensioni, ma che riguarda l'inclusione sociale, le prospettive per il futuro.
A volte si fa anche fatica a voler approfondirne lo studio, forse anche per la paura di scoprire che è un tema che sta colpendo sempre più ampie fasce della popolazione italiana, forse per paura di non sapere come fare ad intervenire, una volta scoperto che il virus si sta diffondendo, che spesso è incurabile...
Un chiaro e abbastanza semplice articolo di lavoce.info parla di come la crisi economica renda sempre più attuale il tema delle condizioni di vita degli italiani. La povertà relativa è essenzialmente una misura della disuguaglianza all'interno della popolazione. La soglia di povertà assoluta, invece, è identificata dal valore di un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali nel contesto sociale di riferimento. In Italia è oggi essenzialmente un problema del Sud.
Ma diventa oggi particolarmente interessante guardare alla "vulnerabilità alla povertà", che misura la povertà di domani. Nel nostro paese potrebbe avere dimensioni drammatiche e va ad interessare soprattutto le periferie delle grandi città anche al nord e le classi medie un tempo ritenute o ritenutesi al riparo di questo virus.
Non sappiamo quando e purtroppo se usciremo dal "tunnel della crisi". Negare o non voler conoscere quale impatto potrà avere un peggioramento o una precaria stabilità del quadro socioeconomico, non serve a nessuno. E' necessario a livello politico, a livello di scelte economiche sia macro che micro, sia nelle grandi che piccole imprese si prenda sempre più a cuore questo problema e gli si dedichi maggiore attenzione, senza lasciare che abbiamo sempre più spazio le associazioni e il "terzo settore" soprattutto nel toppare i buchi lasciati da altri.
A volte si fa anche fatica a voler approfondirne lo studio, forse anche per la paura di scoprire che è un tema che sta colpendo sempre più ampie fasce della popolazione italiana, forse per paura di non sapere come fare ad intervenire, una volta scoperto che il virus si sta diffondendo, che spesso è incurabile...
Un chiaro e abbastanza semplice articolo di lavoce.info parla di come la crisi economica renda sempre più attuale il tema delle condizioni di vita degli italiani. La povertà relativa è essenzialmente una misura della disuguaglianza all'interno della popolazione. La soglia di povertà assoluta, invece, è identificata dal valore di un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali nel contesto sociale di riferimento. In Italia è oggi essenzialmente un problema del Sud.
Ma diventa oggi particolarmente interessante guardare alla "vulnerabilità alla povertà", che misura la povertà di domani. Nel nostro paese potrebbe avere dimensioni drammatiche e va ad interessare soprattutto le periferie delle grandi città anche al nord e le classi medie un tempo ritenute o ritenutesi al riparo di questo virus.
Non sappiamo quando e purtroppo se usciremo dal "tunnel della crisi". Negare o non voler conoscere quale impatto potrà avere un peggioramento o una precaria stabilità del quadro socioeconomico, non serve a nessuno. E' necessario a livello politico, a livello di scelte economiche sia macro che micro, sia nelle grandi che piccole imprese si prenda sempre più a cuore questo problema e gli si dedichi maggiore attenzione, senza lasciare che abbiamo sempre più spazio le associazioni e il "terzo settore" soprattutto nel toppare i buchi lasciati da altri.
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mercoledì 4 gennaio 2012
Le aziende americane lasciano la Cina e tornano a produrre in casa.
Secondo uno studio recente del Boston Consulting Group “Made in America, again: why manufacturing will return to the US” molte aziende USA potrebbero scegliere di lasciare la Cina e tornare a produrre ricambi automobilistici, componenti meccanici, elettronici e informatici in casa. Ciò si deve al fatto che il costo del lavoro nella seconda economia mondiale sta crescendo costantemente ad un tasso del 15/20% annuo e il differenziale di costi di produzione tra USA e CINA, un tempo abissale, potrebbe ridursi “solo” ad un 40% entro il 2015, vanificando di fatto i benefici della delocalizzazione. Rimarrebbero esclusi, per ora, da questo “controesodo” i prodotti tessili e l’abbigliamento.
Tale rinnovata competitività americana frutto in parte anche della crisi che di fatto ha ridotto e a volte annullato la crescita del costo del lavoro e incrementato di conseguenza la produttività USA potrebbe generare tra i due e i tre milioni di nuovi posti di lavoro (compreso l’indotto) e un aumento del PIL fino a 100 miliardi di dollari.
Questo scenario non dovrebbe comunque mettere in difficoltà Pechino, in quanto il sostegno alla crescita dell’economia cinese si sposta dall’esportazione di prodotti ai consumi e alla domanda interna.
In questo scenario di riequilibrio degli assetti globali è necessario che si rafforzino le altre tre importanti aree del pianeta, Europa/Russia, Africa e sud America. Il futuro non solo economico del nostro Mondo è meglio garantito con blocchi politici ed economici stabili. Non solo da due voci “soliste”. Anche di questo dovremmo ragionare, non solo di spread, debito e scaramucce europee…
Tale rinnovata competitività americana frutto in parte anche della crisi che di fatto ha ridotto e a volte annullato la crescita del costo del lavoro e incrementato di conseguenza la produttività USA potrebbe generare tra i due e i tre milioni di nuovi posti di lavoro (compreso l’indotto) e un aumento del PIL fino a 100 miliardi di dollari.
Questo scenario non dovrebbe comunque mettere in difficoltà Pechino, in quanto il sostegno alla crescita dell’economia cinese si sposta dall’esportazione di prodotti ai consumi e alla domanda interna.
In questo scenario di riequilibrio degli assetti globali è necessario che si rafforzino le altre tre importanti aree del pianeta, Europa/Russia, Africa e sud America. Il futuro non solo economico del nostro Mondo è meglio garantito con blocchi politici ed economici stabili. Non solo da due voci “soliste”. Anche di questo dovremmo ragionare, non solo di spread, debito e scaramucce europee…
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