La terra disponibile per la coltivazione tende a ridursi, mentre la popolazione mondiale continua a crescere. Purtroppo come spesso capita, il dibattito ha rapidamente assunto connotati ideologici, con opinioni contrastanti tra le diverse parti in causa, da un lato con il miraggio della modernizzazione e dall'emancipazione dal bisogno per il Sud del mondo, tramite l'industrializzazione dell'agricoltura; dall'altro con il termine "land grabbing – letteralmente "accaparramento della terra" – esprime di per sé una connotazione negativa.
Per i fautori del progetto neo-liberale, il trasferimento di larghi tratti di terra nelle mani di grandi imprenditori, locali o esteri, consentirà di strappare alla povertà milioni di persone nei più remoti angoli del pianeta. I nuovi flussi di investimenti comporterebbero l'aumento della produzione alimentare e la creazione di nuovi posti di lavoro, ponendo così un argine alle perduranti carestie e alla penuria di opportunità economiche nelle campagne. La fede ideologica nel libero mercato si attenua nella prospettiva riformista, che riconosce alcune contraddizioni in tema di sicurezza alimentare e tutela del tessuto sociale, auspicando un maggior interventismo dello Stato per garantire i diritti delle comunità espropriate.
Nella prospettiva degli oppositori, le dinamiche che contraddistinguono la corsa all'accaparramento fondiario celano piuttosto la dismissione della dimensione pubblica dello Stato a favore degli interessi del grande capitale, così come l'abrogazione dei diritti conquistati negli ultimi decenni da categorie sociali storicamente discriminate, quali i gruppi nomadi e i piccoli coltivatori. In termini generali, le ricette prospettate spaziano da una ristrutturazione degli accordi di scambio internazionali all'adozione di riforme agrarie redistributive, che spezzino il monopolio dei grandi latifondi e garantiscano l'accesso ai fattori di produzione su un piano di uguaglianza.
Etiopia - Aprile 2006 |
Nella prospettiva degli oppositori, le dinamiche che contraddistinguono la corsa all'accaparramento fondiario celano piuttosto la dismissione della dimensione pubblica dello Stato a favore degli interessi del grande capitale, così come l'abrogazione dei diritti conquistati negli ultimi decenni da categorie sociali storicamente discriminate, quali i gruppi nomadi e i piccoli coltivatori. In termini generali, le ricette prospettate spaziano da una ristrutturazione degli accordi di scambio internazionali all'adozione di riforme agrarie redistributive, che spezzino il monopolio dei grandi latifondi e garantiscano l'accesso ai fattori di produzione su un piano di uguaglianza.
Pur se non è possibile trarre conclusioni certe sull'impatto di questi investimenti, visto il breve lasso temporale di osservazione del fenomeno, appaiono delle contraddizioni insite nel fronte neo-liberale dove compaiono allarmi circa l'attenzione sui rischi di speculazione finanziaria e marginalizzazione sociale in quei Paesi, soprattutto in Africa sub-sahariana, che si contraddistinguono per una governance poco trasparente. Anche laddove si registrano benefici economici e occupazionali, questi rimangono spesso retaggio delle elite locali, formali e informali, lasciando alle comunità espropriate le esternalità negative.
Si delinea dunque un quadro che ripercorre, in forme nuove e contingenti, dinamiche già sperimentate nel passato coloniale. Cambiano parzialmente gli attori, oggi riconducibili in buona parte al novero delle cosiddette potenze emergenti (Cina, Russia, Brasile, India, Sud Africa), ma non le inevitabili contraddizioni insite nell'espansione del modello di produzione capitalistico a società spesso prive di quei pesi e contrappesi maturati nel tempo dai sistemi occidentali.
Come ho avuto modo di capire nel viaggio che feci per tre mesi in Etiopia nel 2006, è opportuno sottolineare come la terra, considerata nella nostra visione alla stregua di una qualunque merce, incorpora in Africa un insieme di valori che travalicano la sola sfera economica: l'espropriazione arbitraria delle risorse naturali può dunque costituire nell'immediato futuro un fattore di destabilizzazione anche politica. Ciò rischia di rafforzare ulteriormente le spinte centrifughe e le rimostranze armate di minoranze etniche, linguistiche e religiose.
Hai ragione Giancarlo, la terra è un bene e non una merce, certo si può vendere e comperare, ma non come si fa con un oggetto dal valore potenziale e simbolico incommensurabilmente più limitato.
RispondiEliminaL'acqua, la terra, l'aria, l'energia... qual è lo statuto di beni comuni fondamentali (seppure diversi)?